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Rimpianti e rimorsi di chi vive in “esilio” tra Cuba e l’India

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Pubblichiamo un racconto di Gabriella Kuruvilla ispirato al film “Ritorno a l’Avana

«A cosa stai pensando?», mi chiede Facebook. Il fatto che io, a 53 anni, passi il mio tempo libero su un social network, piuttosto che con una donna, con dei figli, con degli amici o con un libro (l’elenco è in ordine d’importanza, decrescente), già mi pare un po’ triste. Ma che mi venga anche voglia di rispondergli mi sembra quasi idiota. Comunque, caro Facebook che non sei una donna, non sei dei figli, non sei degli amici e non sei nemmeno un libro, sto pensando che non mi voglio ritrovare come Armando del film Ritorno a L’Avana: un cubano di mezza età che, dopo 16 anni di esilio a Madrid, torna a casa e, per festeggiare, passa la notte con quattro vecchi amici, su una terrazza circondata da edifici coloniali, decadenti ma colorati, sul cui fondo si stagliano da un lato i grattacieli e dall’altro il mare. E lì, su quella terrazza da cui guardano la città, i cinque bevono, fumano, piangono, mangiano, ballano, ridono ma, più che altro, parlano-parlano-parlano (come in un vecchio film di Woody Allen, ma senza lo stesso humour), del prima e del durante e del dopo la rivoluzione, di come erano e di come sono e di come saranno, di quello che è stato e di quello che è e di quello che sarà, dei sogni del passato e delle frustrazioni del presente e della mancanza di illusioni per il futuro.

In pratica dell’accettazione che volere non sempre è potere: e le loro vite, come la loro nazione, stanno lì a dimostrarlo. Ma il peggio è che, stringi stringi, si rinfacciano un sacco di cose. E, soprattutto, le rinfacciano ad Armando: perché se ne è andato (e chi emigra spesso è considerato da chi resta un mix tra un traditore e un privilegiato) e perché è tornato (e chi ritorna spesso è considerato da chi resta un ingrato: un traditore che non ha saputo apprezzare il privilegio di essersene andato). E anche perché, nonostante sia tornato, loro non lo considerano più un cubano DOC, come chi è restato. Ora io, così come Armando del film Ritorno a L’Avana, non mi voglio ritrovare. Anche perché lo so già che non vengo più considerato un indiano DOC. Ma è anche vero che, essendo qui da quasi trent’anni, ormai mi vesto all’italiana (solitamente Benetton, non Armani: ci tengo a precisarlo), mangio all’italiana (è da un po’ che preferisco la pasta al pomodoro al curry di pollo), amo (quando amo) all’italiana (cioè mi bacio sia in pubblico che in privato, non solo in privato) e addirittura a volte mi capita di pensare in italiano, invece che in malayalam. E di quest’ultima cosa nemmeno io mi perdono. E poi lo so già che vengo considerato un traditore e un privilegiato, perché me ne sono andato: se no, tra l’altro, non si spiega come mai quando chiamo in India invece di chiedermi «Come stai?» mi domandino «Quando ci mandi i soldi?».

D’altronde un traditore privilegiato al massimo lo si usa come un distributore automatico di denaro, mica ci si preoccupa per il suo benessere psico-fisico. E infine lo so già che verrei considerato un ingrato, se tornassi: uno che sputa nel piatto in cui ha mangiato. Ma in realtà, la cosa che mi ha sbattuto davvero giù, stritolandomi lo stomaco e intristendomi le sensazioni, più che l’atteggiamento di chi è restato verso chi è tornato, è il motivo che riporta Armando a casa. E cioè che lui, se non è a L’Avana, non riesce a scrivere. E lui si sente e/o vuole essere (le due cose, secondo me, vanno spesso insieme) uno scrittore. E il problema, alla fine, è che anch’io vorrei tornare a casa. Perché io, se non sono a Trivandrum, non riesco a dipingere. E io mi sento e/o voglio essere un pittore. Anche se di mestiere faccio il grafico, uno che comunque con le linee e con i colori ci lavora. Ma non è che sia la stessa cosa. Ora c’è anche da dire che non è nemmeno bello che quando mi decido ad andare al cinema io veda un film che mi angoscia e mi deprime, e che mi fa sentire come il suo angosciante e deprimente protagonista. Anche se nemmeno gli altri personaggi del lungometraggio – un pittore censurato dal regime, una dottoressa con figli a Miami, un ingegnere di origine africana (che è l’unico ad essere rimasto un’idealista: «Lasciatemi credere di crederci ancora», dice) e un piccolo dirigente senza scrupoli, sono allegri: ultimamente la felicità sembra bandita pure dalla finzione, per lo meno da gran parte di quella cinematografica.

di Gian Antonio Garlaschi

In ogni caso adesso chiudo Facebook, e spengo pure il computer (si sa mai che all’improvviso mi ritorni la voglia di guardare post, accettare amicizie, conteggiare “mi piace” e leggere messaggi di persone che, il più delle volte, non so nemmeno chi siano e nemmeno mi importa davvero saperlo) . Piuttosto provo a dipingere, a Milano. Cerco le tele che mi ero comprato con il mio primo stipendio. So benissimo dove le ho messe, anche se non le ho mai più né usate né toccate né guardate, in tutto questo tempo. Sono nell’armadio, dietro alla scatola che contiene i vestiti con cui sono arrivato per la prima volta in Italia: nemmeno quelli li ho mai più né usati né toccati né guardati, in tutto questo tempo. Trovo le tele: le guardo e le tocco, ma neppure questa volta riesco a usarle. Le lascio lì, appoggiate sul tavolo della cucina. E inizio a girovagare per casa. Non che possa camminare molto: questo appartamento all’ultimo piano di un palazzo del primo Novecento misurerà si e no cinquanta metri quadri. Che, però, a me bastano e sono sempre bastati. In più, anch’io ho una terrazza, da cui domino un bel pezzo della città. O, per lo meno, della zona di porta Venezia (e dintorni).

Dunque ci vado, sulla mia terrazza. Anche se fa freddo e pioviggina. Da qui vedo case decadenti e colorate ma anche edifici moderni e grigi, in più vedo i grattacieli ma non vedo nessun mare. Se non quello verde, fatto di piante, dei giardini pubblici di via Palestro. Che non stanno molto lontani da casa mia e dove ogni tanto, per tenermi in forma (che io alla mia forma ci tengo), vado a correre. E, se guardo in basso, vedo benissimo la via in cui abito: che è Panfilo Castaldi. E che, a differenza della strada lungomare inquadrata in Ritorno a L’Avana, è piena di traffico, più di persone che di macchine, anche di notte. D’altronde adesso è sabato notte, quindi tempo di movida milanese: qui, fino a una decina d’anni fa, dalle otto di sera in poi, anche durante il weekend, sembrava spegnersi tutto mentre da quando hanno iniziato ad aprire alcuni locali, come il Bar 35 Food & Drinks, il Mono o lo Zoom, dall’ora dell’aperitivo fino a quella della buonanotte (cioè, più o meno, intorno alle due del mattino), c’è vita, fatta spesso di chiacchiere e di cocktail. E agli storici abitanti e negozianti del quartiere, che viene considerato la prima casbah di Milano per l’alta presenza di eritrei, etiopi e indiani, si sono aggiunti anche moltissimi italiani: che vengono qui a cercare la nuova Soho, dicono alcuni.

di Gian Antonio Garlaschi

Fossi a Trivandrum, dalla terrazza della mia casa, vedrei un caos diverso. E più frenetico. Ma in qualche modo via Panfilo Castaldi mi ricorda Trivandrum: non fosse altro che per i ristoranti e i bazar indiani che si trovano in questa strada, oltre ai rumori e agli odori, eterogenei e intensi, che sento di continuo. E forse è per questo che, nonostante io adesso guadagni bene, non mi sono allontanato da questo quartiere, che ho scelto quando sono arrivato perché qui gli appartamenti costavano meno che altrove. Torno dentro, e apro la mia Moleskine su cui di solito appunto disegni e scritte: che però solitamente sono bozzetti di loghi e marche, che poi perfeziono e ultimo al computer. Adesso, per la prima volta, su questo taccuino che abbassa notevolmente la mia ansia da prestazione perché non è pretenzioso come una tela, riesco a dipingere degli acquarelli: un bus e il tempio Padmanabhaswamy. Uno dei mezzi di trasporto che usavo di più e uno degli edifici che mi piaceva di più: comunque, due immagini di Trivandrum. Non riesco a ritrarre i miei parenti e i miei amici, però. Ci provo, ma è come se la mano, che scivola precisa sugli oggetti, si rifiutasse di ritrarre le persone e gli affetti. È come se non mi appartenessero, ormai.

Riaccendo il computer ma non vado su Facebook. Compro un biglietto solo andata per Trivandrum: Armando o non Armando, ho bisogno di tornare a casa.

 

“Ritorno a L’Avana”, vincitore delle Giornate degli Autori di Venezia 2014, è l’ultimo film del regista francese Laurent Cantet (già premiato con la Palma d’oro a Cannes nel 2008 per “La classe”), scritto in collaborazione con il romanziere cubano Leonardo Padula.


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